mercoledì 30 settembre 2009




Follia e peripezie psichiatriche

A parere di Kant "c'è un genere di medici, i medici della mente, che ritengono di aver scoperto una nuova malattia ogni volta che escogitano un nome nuovo"

Devo ai suoi scritti e alle sue conferenze, che leggo e seguo da più o meno 15 anni, molto del mio spirito critico, ma proprio non riesco a capire certe sue idee. Ho 34 anni, sono una psicologa che poi è diventata un giovane medico specializzando in psichiatria. Non capisco perché non si possano fare diagnosi psichiatriche. Non capisco perché debba essere così tanto tragico ed etichettante ricevere diagnosi, per esempio, di disturbo bipolare piuttosto che di epilessia o di sclerosi multipla. Un bravo psichiatra che conosca bene i criteri diagnostici, i meccanismi d'azione dei farmaci e quindi il loro uso corretto, riesce a trattare con successo un disturbo bipolare esattamente come un bravo neurologo tratta l'epilessia e molto meglio di come si riesca a trattare oggigiorno la sclerosi multipla. Chiara Mattei chiaramattei@gmail.it
risponde Umberto Galimberti
Non mi fraintenda, anche se posso avergliene dato l'occasione. Non ho nulla contro la psichiatria e i suoi progressi sperimentali che consentono di individuare farmaci che attenuano la sofferenza, talvolta atroce, di chi soffre di disturbi mentali. Semplicemente vorrei attenuare quella fiducia incondizionata e acritica che alcuni psichiatri nutrono per le loro diagnosi, e ricordare loro che la psichiatria è una "iatria" ossia una pratica medica, non una "loghia", ossia un sapere costruito su chiare basi concettuali. Si prenda ad esempio la crisi di panico, oggi curata con farmaci antidepressivi che rivelano la loro efficacia, senza che questo buon risultato autorizzi a includere il panico nel quadro nosologico delle depressioni. Quando le diagnosi sono decise dall'efficacia farmacologica, come si fa a dar torto a Ludwig Wittgenstein là dove scrive: "La psichiatria è quella scienza fatta di metodi sperimentali e confusione concettuale"? E infatti come opportunamente osserva Ian Hacking dell'Università di Toronto: "Non abbiamo ancora chiara l'interazione tra la conoscenza degli esperti e il comportamento delle persone con problemi psichici. È questo l'obbiettivo da perseguire". È noto che la malattia mentale ha bisogno di vittime e di esperti. Dove ci sono le vittime, ma non gli esperti, oggi diremmo dove ci sono i pazienti ma non gli specialisti, la malattia non è individuata, non è isolata, al limite non è neppure avvertita. È il caso dei bambini che la psichiatria rubrica come "depressi" o "iperattivi", quindi da trattare gli uni con il Prozac e gli altri con il Ritalin. Costoro sono affetti da disturbi mentali reali o vittime di concettualizzazioni psichiatriche, di sindromi alimentate da specialisti, o più semplicemente di postulati tipici di una cultura che vuole medicalizzare ogni grattacapo che dà filo da torcere a genitori, insegnanti, educatori, o più semplicemente ai conducenti degli autobus? A proposito delle malattie mentali, il nostro serbatoio di ignoranza è senza limiti, ma nostre sono anche le confusioni concettuali che le nuove conoscenze e soprattutto le nuove definizioni e le nuove diagnosi non aiutano a eliminare, con buona pace di tutti i rigidi seguaci del DSM (il manuale diagnostico-statistico) che si attaccano alle sue definizioni come un naufrago a tutto quello che gli capita sotto mano per non affogare nel mare dell'incertezza e della non conoscenza. Cento anni di osservazione psichiatrica ci hanno abituato al carattere transitorio di molte malattie mentali, non solo nel senso che queste vanno e vengono nella vita di un individuo, ma anche nel senso che si presentano in una certa epoca e in un certo luogo e poi spariscono, come è il caso della "demenza precoce" della seconda metà dell'Ottocento o dell'"isteria" della prima metà del Novecento, che oggi nessun psichiatra sottoscriverebbe, per non parlare della masturbazione, oggetto degli studi di Tissot e di Zimmerman che si erano specializzati in "malattie respiratorie e masturbatorie". Come si vede, i dati culturali non sono meno significativi dei riscontri clinici. E bene farebbe la psichiatria ad affiancare alla ricerca genetica e biologica un'elevata sensibilità e attenzione per le trasformazioni sociali. Ma per questo occorre una cultura umanistica, perché è difficilmente contestabile il fatto che non è possibile curare la mente, che è l'organo che sintetizza cultura, prescindendo dalla cultura che è il lavoro della mente. Del resto, già quarant'anni fa, lo psichiatra inglese Roland Laing, ne La politica dell'esperienza (Feltrinelli), avvertiva che "la biochimica di un essere umano è altamente sensibile alle circostanze sociali". Evitiamo di invertire questa relazione e concludere, come sembra fare la psichiatria appiattita sulla farmacologia, per la quale "le circostanze sociali si sono fatte altamente sensibili alla biochimica".
lettere a Umberto Galimberti , D La Repubblica delle Donne " 25/7/09

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